Conoscere il pH di un alimento è importante per tenere sotto controllo il suo stato di conservazione e, in alcuni casi, prolungarlo, garantendo così una migliore sicurezza alimentare. Ecco perché oggi parliamo di pH degli alimenti: cosa è, come influisce sulla conservazione e in che modo è possibile intervenire per aumentare la durata di un alimento e renderlo ancora più sicuro per il consumatore finale.
Il pH di un alimento rappresenta la concentrazione di ioni di idrogeno all’interno di un composto e ne misura l’acidità o basicità. Questo parametro si esprime in una scala di misurazione che va da 0 a 14, dove 7 rappresenta il valore neutro. Quando il pH ha un valore inferiore a 7, significa che siamo in presenza di un ambiente acido; al contrario, se il pH è superiore a 7, abbiamo un ambiente basico.
Alimenti ad ambiente acido e pH basso sono per esempio limoni, pomodori, yogurt, aceti e si caratterizzano per un sapore aspro; mentre latte, uova, verdura e carne sono cibi ad ambiente basico, tipicamente con un sapore sapido e amaro. Inoltre, mentre gli alimenti acidi possono avere effetti conservanti naturali, gli alimenti basici presentano un rischio molto alto di formazione di microrganismi come funghi e batteri.
Il pH di un alimento ha, quindi, un ruolo fondamentale nel processo di conservazione.
Come abbiamo visto, infatti, più basso è il pH degli alimenti più è difficile che si sviluppino microrganismi: questo perché il livello di acidità dell’alimento influisce sulla sua capacità di conservazione.
I sott’aceti, per esempio, si conservano molto bene per periodi lunghi proprio perché molto acidi, dunque con un pH basso che blocca la crescita di microrganismi dannosi.
Considerando, quindi, che muffe, batteri e lieviti crescono più facilmente in ambienti a bassa acidità e con pH molto estremi, è possibile intervenire sul livello di acidità di un alimento per abbassare il rischio che si sviluppino agenti patogeni e aumentare così la durata e qualità di conservazione dello stesso.
L’acidificazione è il metodo di conservazione degli alimenti che consiste nel ridurre il pH di un alimento per renderlo più acido e creare così le peggiori condizioni per la proliferazione di batteri. Questo processo viene spesso utilizzato nella produzione di frutta e verdura, ad esempio per prevenire la formazione di batteri pericolosi come la Clostridium Botulinum, o nella produzione di riso e pasta per controllare il Bacillus Cereus.
Sebbene l’acidificazione possa funzionare molto bene nella prevenzione da microrganismi pericolosi per l’uomo, non è un metodo infallibile: per questo è sempre meglio associarlo a sterilizzazione e refrigerazione.
I modi più comuni per aumentare l’acidità di un alimento sono l’aggiunta di acidi alimentari e la fermentazione.
Nel primo si procede andando ad immettere direttamente nell’alimento acidi alimentari come l’acido lattico (derivato dalla fermentazione lattica), l’acido citrico (presente negli agrumi) o l’acido acetico (presente nell’aceto). L’aggiunta di questi acidi diminuisce il valore del pH nell’alimento e influisce sul suo sapore, dandogli un gusto fresco e fruttato (nel caso dell’acido citrico) o più aspro (nel caso dell’acido acetico).
Con la fermentazione, invece, i microrganismi consumano carboidrati producendo l’acido che abbassa il pH e conserva meglio il cibo. Alimenti fermentati sono per esempio lo yogurt e la salsa di soia.
In entrambi i casi, il processo di acidificazione deve essere costantemente monitorato per evitare che un valore, troppo basso o alto, del pH influisca negativamente sul sapore dell’alimento o sulla sua capacità di conservarsi. Ecco perché è consigliabile misurare costantemente il pH stabilendo sempre dei punti critici di controllo.
In conclusione, il pH degli alimenti, intervenendo direttamente nella conservazione degli stessi, rappresenta un aspetto fondamentale e da tenere ben presente nel più ampio tema della sicurezza alimentare.
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